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mercoledì 17 ottobre 2012

L'iniziazione









Fin dalla partenza, alle prime luci dell’alba, una pioggia leggera e insistente era caduta senza sosta. Una pioggerellina subdola e tenace, così inconsistente da essere appena percepibile, ma sufficiente a renderci, dopo alcune ore, delle maschere di acqua e fango, man mano che ci addentravamo nella boscaglia. I sentieri che si aprivano tra alberi secolari e cespugli di rovi, con il passare delle ore, erano stati cancellati dall’acqua che li riempiva, rendendo il nostro cammino sempre più faticoso. Qualche passo davanti a me, avanzavano sicuri mio zio Giuliano e il suo fraterno amico Aristide. I miei due compagni camminavano silenziosi, uno a fianco all’altro. Io li seguivo stanco e avvilito, fradicio e appesantito dal loro silenzio che immaginavo dovuto alla delusione, oppure, pensavo, all’indignazione per il mio inaccettabile comportamento.Di tanto in tanto i due scambiavano qualche parola, sommessa, in parte sciolta nell’aria umida; parole che componevano frasi che immaginavo di scherno e commiserazione per la mia pochezza. Oramai si avvicinava l’ora del rientro. L’evento, che avrebbe dovuto sancire, per i due uomini, il mio passaggio oltre la linea rosea dell’adolescenza, non si era ancora realizzato. Sarei tornato a casa da mia madre senza aver compiuto il grande passo, deluso, accompagnato dalle occhiate derisorie di mio zio e del suo amico, con l’unico desiderio di sentire sul mio capo il peso lieve di una carezza. 

Nelle lunghe sere d’inverno, quando, per assecondare il buio nel suo cammino verso la notte, ci si sedeva nella grande cucina vicino al fuoco rassicurante del caminetto, ascoltavo rapito i dialoghi sommessi degli adulti. Di tanto in tanto un dolce torpore s’impadroniva di me, portandomi in quella dimensione di confine nella quale il reale sfuma e si confonde con la fantasia, con l’immaginazione e il sogno. A volte, guidato dall’eco di un’ultima parola o dalla suggestione di una frase incompresa, varcavo i confini stessi della notte, lasciando gli adulti al di qua, immersi nella ritualità stanca dei loro dialoghi.

Una sera tra tante, avevo forse da poco compiuti i sei anni, divenni inaspettatamente protagonista del dialogo tra mia madre e mio zio Giuliano. Ero ormai quasi del tutto assopito, con la testa reclinata in grembo a mia madre, in quello stato di torpore beato che precedeva il passaggio nel sonno, quando mi giunse l’eco della voce di mio zio, il quale diceva, con l’enfasi che gli era abituale, che al compimento del mio diciottesimo anno mi avrebbe portato con sé, per farmi diventare un uomo.

Il cielo, fino a poco prima immobile e ingombro di nuvole verdastre, iniziava a muoversi dolcemente, sotto la spinta di un forte vento che soffiava da nord. La pioggia, che era stata l’implacabile e unica protagonista di quella mattinata di fine ottobre, dopo uno scroscio di maggiore intensità, un ultimo sussulto prima della quiete, lasciò il posto a una nebbiolina tiepida, rischiarata dai primi raggi inattesi del sole. Mio zio Giuliano e Aristide si erano levati i berretti per liberarli dall’acqua che li aveva impregnati in ogni fibra, invitando me a fare altrettanto, quando un fruscio che mi sembrò gioioso e liberatorio precedette il precipitarsi verso il pallido sole di tre leggere macchie nere, con grida che sembravano di bambini eccitati per la ripresa del gioco. Al colpo di tuono che partì da zio Giuliano, seguito da quello incosciente e colpevole della mia doppietta, seguì un planare scomposto e vorticoso, poi una quiete plumbea, mentre i miei due compagni, incitandomi a seguirli, si addentravano nella boscaglia.

Rimasi immobile, con i piedi tremanti affondati nella pozzanghera, incapace di muovere un solo passo, mentre la doppietta, che mi sembrava di un peso intollerabile, giaceva sull’erba incolta. Impossibile dire quanto tempo durò lo stato di confuso sgomento che mi attanagliava la gola, poi, lentamente, mi incamminai verso l’addensarsi del verde cupo del bosco. Il silenzio tutto intorno mi sembrava partecipe del mio stato di pena, mentre una cappa di dolore cupo mi annebbiava la vista. Camminai a lungo, oppure furono solo pochi passi, quando, aggirando una pozza profonda che mi sbarrava la strada, passando tra i rovi di un cespuglio, incontrai uno sguardo di angoscia e dolore. Nascosta tra i rovi, tremante, in una goffa postura dovuta all’ala spezzata e sanguinante, una beccaccia mi guardava con occhi che urlavano il terrore, implorando pietà; il becco aperto in urlo o pianto strozzato puntava verso di me, in una disperata richiesta di grazia. 

Dopo una corsa a perdifiato, mi accasciai sull’erba fradicia della radura, ai margini della boscaglia, sciogliendomi in un pianto a dirotto, sgomento, mentre portavo ancora negli occhi l’immagine di quello sguardo di terrore impotente e il rimbombo, dentro di me, di un urlo disperato, che sembrava appartenere a tutte le vittime innocenti del mondo. 

4 commenti:

  1. La caccia resta per me uno "sport" (ma si può chiamare così?) incomprensibile.

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  2. Questo gradevolissimo racconto porta l'attenzione sulle continue "esibizioni di forza" (o sarebbe piu' giusto dire di violenza gratuita) che vengono imposte ai piu' giovani.
    I piu' sensibili, quelli preparati, li percepiranno come tali e ne resteranno inorriditi, ma la maggior parte di loro, i piu' indifesi, li vivra' come giusta espressione del piu' forte. Un trofeo che sarebbe bello indossare.
    Adriana

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    1. Grazie, Adriana, per il tuo contributo. Una certa cultura che esalta un malinteso senso di "virilità" impone l'adesione a certi stereotipi. Il "maschio forte", che esprime violenza, anche con modalità contrabbandate per "sport", è ancora per molti, purtroppo, il paradigma del "vero uomo" Per fortuna non per tutti è così.

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  3. Il racconto che sembra preludere ad una iniziazione di tipo "sessuale" si dipana nel rappresentare invece quanto di più abbietto è nell'uomo; la prepotenza verso il più debole.
    E' la rappresentazione di tutte le guerre, di tutte le violenze.
    Non credo sia un caso che stavolta le prepotenza si accanisca verso la massima espressione di libertà che esista in in natura: il volo. Gli occhi della beccaccia (ma che differenza hanno con tutti gli altri occhi?)esprimono l'unica domanda possibile: perchè?
    Pasquale Matera

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